Di storia e di storie all’Isola d’Elba, e a Capoliveri poi, così antico e suggestivo, ce ne sono tante; tracce di grandi personaggi e vicende, che portano l’Isola nei libri di storia, oppure racconti, aneddoti lontani, accaduti in periodi importanti, che portano il carattere fiero ed orgoglioso degli elbani fra i capitoli di storie più grandi, che da qua son passate o si sono fermate per un po’, lasciando il segno nel paesaggio, nella forma delle chiese e dei palazzi e nella memoria locale, che ne ha fatto leggende, canti e feste con cui oggi gli elbani vi vogliono intrattenere per far conoscenza e per non dimenticare.
La miniera fa parte di questo grande libro, scritto da millenni, per primi dagli Etruschi e dai Romani, continuato da Pisani e Genovesi nel Medioevo, arricchito dalle mire di Cosimo de’ Medici e perfino da Napoleone, che aveva ben stimato la ricchezza di queste terre e le loro ambiziose possibilità.
Sono tante le pubblicazioni che vi potranno raccontare l’evoluzione della Miniera di Ferro di Capoliveri ma quel che qui vorremmo aiutarvi a scoprire è la storia scritta nel paesaggio capoliverese e quella nascosta nel carattere dei suoi antichi minatori che, con fatica ed orgoglio, hanno sfruttato e rispettato questa terra, le hanno dedicato la vita, passata tra le cave, le vigne ed il mare.
Quel che rimane della Miniera di Calamita, chiusa per ragioni economiche nel 1981, sono i resti degli ultimi scavi, gli impianti di estrazione e trattamento dei minerali ferrosi, progetti all’avanguardia per quei tempi, quando la nostra miniera, quella sotterranea in particolare, era la più moderna e ricca d’Europa.
Di questa modernità ed efficienza, della ricchezza di Ematite, Magnetite, Limonite e Pirite, i minerali di ferro, sono così orgogliosi i minatori quando, quasi con rancore e con un pò di malinconia, raccontano il lavoro e poi la chiusura dei cantieri.
E se da una parte restiamo stupiti e commossi di quanto trasporto mettano nel ricordare così tanta fatica, dall’altra dobbiamo capire che là, tra la polvere e la stanchezza, c’era l’orgoglio di conoscere un mestiere, di saperlo fare e di esserne parte, parte di un’eccellenza italiana, che era proprio qua, che richiedeva la forza e la tenacia dei capoliveresi.
Bisogna sentire la fierezza nella voce quando raccontano che gli stabilimenti di Piombino, Genova e Taranto lavoravano grazie al minerale elbano, che si distribuivano ghisa ed acciaio in tutta Italia ed oltre e che i nuovi impianti, nel dopoguerra, erano progettati da ingegneri tedeschi, venuti da lontano per gettare le basi di un futuro avveniristico che sembrava non dovesse mai finire, proprio come il ferro per i greci ed i romani, quando si credeva che il minerale, appena cavato, rinascesse dalle profondità della terra.
Bisogna immaginare la ventata di novità che l’ammodernamento degli scavi ha portato quaggiù dai primi anni del ‘900: ferrovie e treni a vapore, pontili, funivie, centrali elettriche, strade e mezzi arrivano in miniera molto prima che in paese, un borgo di minatori, pescatori e contadini che fino agli anni ’50 non immaginavano un futuro turistico per la loro terra ricca di ferro.
Inizio secolo, il lavoro è durissimo, solo per raggiungere il Cantiere Vallone, ci vuole più di un’ora a piedi, si parte all’alba con il tizzo acceso e si cammina per lavorare, andata e ritorno, con qualsiasi tempo e poi c’è il cottimo, che paga in base al ferro estratto, ed è un modo ingiusto e troppo incerto per una fatica del genere. I mezzi di scavo e trasporto sono ancora rudimentali, il foro da mina si fa a mano, il carico con la pala e la coffa, i carretti e i somari.
E se piove?
Se piove suona la sirena e si torna a casa a mani vuote, stanchi e delusi, perché se il tempo non migliora la paga sarà troppo bassa per sfamare la famiglia e bisognerà chiedere credito alla Cooperativa della miniera, là ti danno la farina, la carne, il burro, il latte ma poi il mese dopo trattengono tutto e alla fine nella busta ci si trova il serpo, una s tracciata in rosso che pare un serpente, il saldo dovuto che consuma uno stipendio già misero, che spesso costringe gli uomini a lavorare nei campi o ad andare a pescare dopo la miniera per garantirsi il mangiare.
Eppure questa è l’unica possibilità e tutti, compiuti quattordici anni, fanno domanda per lavorare a Capoliveri, Rio Marina e Rio Elba e poi, nei primi anni del secolo, apre lo stabilimento siderurgico di Portoferraio, l’altoforno per la ghisa e l’ acciaio per la prima volta prodotti direttamente sull’Isola che diventa famosa e moderna davvero, orgoglio d’autarchia visitata più volte da Mussolini e riprodotta sulle cartoline d’epoca che diffondevano l’immagine dell’Elba industriale. Anche il trasporto migliora e all’Innamorata, oggi spiaggia affollata, arrivano 6 km di ferrovia, con vagoncini trainati a vapore.
Cantieri e stabilimenti crescono e la forza lavoro aumenta, gli operai si riconoscono nella lotta di classe e riescono ad ottenere qualche diritto dopo i primi scioperi e le grandi occupazioni ma con la guerra la produzione cala finchè, semidistrutti dai bombardamenti alleati nel secondo conflitto mondiale, gli altiforni chiudono e gli elbani, stremati dalla guerra e dalla perdita della loro miglior risorsa, devono ricominciare.
La ripresa è forte nel dopoguerra e a Capoliveri cominciano i lavori di preparazione per la miniera sotterranea del Ginevro, la galleria di Magnetite più grande e produttiva d’Europa, fiore all’occhiello della produzione siderurgica italiana, che richiede ben vent’anni di progettazione, 7 km di strade sotterranee e 90 mt di profondità.
Qua si cava la Magnetite, il miglior minerale di ferro; la resa altissima ripaga lo sforzo dello scavo nella roccia durissima della messa a punto degli impianti così lontani dal paese. Ma non si cammina più per raggiungere la miniera, nascono strade nuove, prima si prende la bici ed infine il bus per arrivare in cantiere; il cottimo è bandito e i minatori hanno un salario, ancora misero ma regolare, il lavoro in galleria è durissimo ma la perforazione con martelli e macchine ad aria compressa ed il trasporto con locomotive a batteria migliorano un po’ le cose.
Anche i cantieri a cielo aperto aumentano e si ammodernano con nuovi pontili e nastri trasportatori, impianti di trattamento e separazione del minerale.
Negli anni ’60 i primi turisti si affacciano sull’Elba per conoscere una natura rigogliosa e incontaminata e i suoi abitanti che li accolgono sì, un po’ burberi un po’ generosi, ma continuano a cercare il lavoro in miniera fino al 1981 quando tutto chiude, non perché è finito il ferro, ma perché all’Italsider, la concessionaria, comprarlo in Sud America e in Sud Africa conviene.
Le cose cambiano alla svelta, l’Elba ormai è turistica e Capoliveri uno dei paesi più apprezzati e capaci di tenere il passo con i tempi ma i minatori, e qua bisogna fare un piccolo sforzo e comprenderli, hanno scioperato tantissimo ed hanno l’amaro in bocca: il ferro era ancora tanto e “buono”, il lavoro si sapeva fare, è stato un tradimento, un peccato chiudere.
Scioperano, bloccano l’Isola, vanno a Roma, delusi, spaventati ed arrabbiati ed ai politici che, quasi stupiti, gli ricordano che hanno una bellissima terra con un incantevole mare rispondono: “Non siamo mica vagabondi!!”
E la loro voce è giusta e commovente oggi che tutto è diverso per fortuna, che cerchiamo di raccontare la miniera, che passeggiamo lungo i suoi sentieri, tra il mare e la collina, insieme a quel che resta del loro lavoro, meravigliosamente fuso nel paesaggio, parte della stessa natura di questo posto che sembra, senza la miniera e i suoi uomini, forse non sarebbe.